Tra gli applausi scroscianti, che riempiono le navate, Borsellino si avvicina al pulpito, prende il microfono e, all’improvviso, cala un silenzio assoluto

E’ il 20 giugno 1992. E’ passato un mese dalla strage di Capaci. Paolo Borsellino arriva alla chiesa di San Domenico a piedi da Piazza Magione insieme alla sorella Rita, alla scorta e ai 30.000 ragazzi, provenienti da tutta Italia, immerso in un’imponente fiaccolata. L’AGESCI si fece promotrice di una fiaccolata che portò a Palermo, affranta dal dolore, oltre duemila scout da ogni parte d’Italia che vennero a dare testimonianza e solidarietà ai cittadini di Palermo, sgomenti e increduli per ciò che era accaduto. Alla fine di quella silenziosa marcia, ricordando l’amico Giovanni, Paolo Borsellino, consegnò agli Scout dell’AGESCI un “Testimone”, un rotolo di pergamena contenente le Beatitudini, e nell’affidarlo agli scout, disse di farlo fruttare e di impegnarsi concretamente. Tra gli applausi scroscianti, che riempiono le navate, Borsellino si avvicina al pulpito, prende il microfono e, all’improvviso, cala un silenzio assoluto. Le sue parole riempiono la chiesa ed escono, urlanti, nella piazza e raggiungono tutta la città.

“Giovanni Falcone lavorava con perfetta coscienza che la forza del male, la mafia, lo avrebbe un giorno ucciso.
Francesca Morvillo stava accanto al suo uomo con perfetta coscienza che avrebbe condiviso la sua sorte.
Gli uomini della scorta proteggevano Falcone con perfetta coscienza che sarebbero stati partecipi della sua sorte.
Non poteva ignorare, e non ignorava, Giovanni Falcone, l’estremo pericolo che correva, perché troppe vite di suoi compagni di lavoro e di suoi amici sono state stroncate sullo stesso percorso che egli si imponeva.
Perché non è fuggito, perché ha accettato questa tremenda situazione, perché non si è turbato, perché è stato sempre pronto a rispondere a chiunque della speranza che era in lui? Per amore!
La sua vita è stata un atto d’amore verso questa sua città, verso questa terra che lo ha generato. Perché se l’amore è soprattutto ed essenzialmente dare, per lui, e per coloro che gli sono stati accanto in questa meravigliosa avventura, amare Palermo e la sua gente ha avuto e ha il significato di dare a questa terra qualcosa, tutto ciò che era ed è possibile dare delle nostre forze morali, intellettuali e professionali per rendere migliore questa città e la patria cui appartiene.
Qui Falcone cominciò a lavorare in modo nuovo. E non solo nelle tecniche di indagine. Ma anche consapevole che il lavoro dei magistrati e degli inquirenti doveva porsi sulla stessa lunghezza d’onda del sentire di ognuno.
La lotta alla mafia non doveva essere soltanto una distaccata opera di repressione, ma un movimento culturale e morale, anche religioso, che coinvolgesse tutti, che tutti abituasse a sentire la bellezza del fresco profumo della libertà che si oppone al puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità, e quindi della complicità. Ricordo la felicità di Falcone, quando in un breve periodo d’entusiasmo, conseguente ai dirompenti successi originati dalle dichiarazioni di Buscetta, mi disse: la gente fa il tifo per noi. E con ciò non intendeva riferirsi soltanto al conforto che l’appoggio morale della popolazione dà al lavoro del giudice.
Significava soprattutto che il nostro lavoro, il suo lavoro, stava anche sommovendo le coscienze, rompendo i sentimenti di accettazione della convivenza con la mafia, che costituiscono la sua vera forza.
Questa stagione del “tifo per noi” sembrò durare poco, perché ben presto sopravvennero il fastidio e l’insofferenza per il prezzo che la lotta alla mafia, la lotta al male, costringeva la cittadinanza a pagare.
Insofferenza alle scorte, insofferenza alle sirene, insofferenza alle indagini, insofferenza a una lotta d’amore che costava però a ciascuno non certo i terribili sacrifici di Falcone, ma la rinuncia a tanti piccoli o grandi vantaggi, a tante piccole o grandi comode abitudini, a tante minime o consistenti situazioni fondate sull’indifferenza, sull’omertà o sulla complicità. Insofferenza che finì per provocare e ottenere, purtroppo, provvedimenti legislativi che, fondati su un’ubriacatura di garantismo, ostacolarono gravemente la repressione di Cosa nostra e fornirono un alibi a chi, dolorosamente o colposamente, di lotta alla mafia non ha mai voluto occuparsi.
In questa situazione Falcone andò via da Palermo. Non fuggì. Tentò di ricreare altrove, da più vasta prospettiva, le condizioni ottimali per il suo lavoro. Per poter continuare a dare. Per poter continuare ad amare.
Venne accusato di essersi avvicinato troppo al potere politico. Menzogna!
Qualche mese di lavoro in un ministero non può far dimenticare il lavoro di dieci anni. E Falcone lavorò incessantemente per rientrare in magistratura.
Per fare il magistrato, indipendente come lo era sempre stato, mentre si parlava male di lui, con vergogna di quelli che hanno malignato sulla sua buona condotta. Muore, e tutti si accorgono di quali dimensione ha questa perdita. Anche che per averlo denigrato, ostacolato, talora odiato e perseguitato hanno perso il diritto di parlare. Nessuno tuttavia ha perso il diritto, e anzi il dovere sacrosanto, di continuare questa lotta. Se egli è morto nella carne, è vivo nello spirito, come la fede ci insegna; le nostre coscienze, se non si sono svegliate, devono svegliarsi!
La speranza è stata vivificata dal suo sacrificio, dal sacrificio della sua donna, dal Sacrificio della sua scorta. Molti cittadini, è vero, ed è la prima volta, collaborano con la giustizia nelle indagini concernenti la morte di Falcone. Il potere politico trova, incredibilmente, il coraggio di ammettere i suoi sbagli e cerca di correggerli, almeno in parte, restituendo ai magistrati gli strumenti loro tolti con stupidi pretesti accademici. Occorre evitare che si ritorni di nuovo indietro, occorre dare un senso alla morte di Giovanni, alla morte della dolcissima Francesca, alla morte dei valorosi uomini della sua scorta.
Sono morti per tutti noi, per gli ingiusti, abbiamo un grande debito verso di loro e dobbiamo pagarlo gioiosamente, continuando la loro opera; facendo il nostro dovere, rispettando le leggi, anche quelle che ci impongono sacrifici, rifiutando di trarre dal sistema mafioso i benefici che potremmo trarre, anche gli aiuti, le raccomandazioni, i posti di lavoro; collaborando con la giustizia, testimoniando i valori in cui crediamo, in cui dobbiamo credere, anche dentro le aule di giustizia: troncando immediatamente ogni legame di interesse, anche quelli che ci sembrano più innocui, con qualsiasi persona portatrice di interessi mafiosi, grossi o piccoli; accettando in pieno questa gravosa e bellissima eredità di spirito.Dimostrando a noi stessi e al mondo che Falcone è vivo”.

Paolo Borsellino, 20 giugno 1992

Roberto Greco per referencepost.it