Era nato a Bologna il 5 marzo 1922. È stato uno dei più eclettici e straordinari intellettuali italiani del Novecento

Figlio di un ufficiale dell’esercito italiano, Pier Paolo Pasolini fu educato nelle scuole delle varie città del nord Italia dove suo padre fu successivamente messo in servizio. Ha frequentato l’Università di Bologna, studiando storia dell’arte e letteratura. La permanenza di rifugio di Pasolini tra i contadini oppressi del Friuli durante la seconda guerra mondiale lo portò a diventare marxista, anche se non ortodosso. La sua esistenza povera a Roma negli anni ’50 ha fornito il materiale per i suoi primi due romanzi, Ragazzi di vita (1955) e Una vita violenta (1959). Queste raffigurazioni, brutalmente realistiche della povertà e dello squallore della vita nelle baraccopoli a Roma, lo seguiranno in tutte le opere riguardavano la vita di ladri, prostitute e altri frequentatori della malavita romana.

È solo al momento della morte che la nostra vita, in quel punto indecifrabile, ambigua, sospesa, acquista un significato“. Così disse Pier Paolo Pasolini in un’intervista nel 1967. Tuttavia, a quarantaquattro anni dal mistero mai completamente risolto del suo omicidio, il lavoro di Pasolini rimane tutto questo: una complessa fusione di passioni contrastanti e alleanze inconciliabili. Rispetto alle fantasie oniriche di Federico Fellini o alla modernità di Michelangelo Antonioni, il suo mix esoterico di poesia e politica, mito e storia, passione e ideologia, è più difficile da definire ma altrettanto impossibile da ignorare. Pasolini scelse di non risolvere le sue insicurezze, ma piuttosto di abbracciare la loro incongruenza. Era in parte cattolico, in parte ateo e dichiarato ideologo marxista; un gay omosessuale, a volte auto-odiato, che guardava ai valori tradizionali italiani per ispirazione e conforto. Un ribelle che, verso la fine degli anni ’60, si opponeva alle proteste studentesche di sinistra, simpatizzando invece con la “vera” classe operaia, la polizia. Non è una sorpresa che sia ricordato come uno dei più interessanti e innovativi registi italiani del dopoguerra.

Prima di avvicinarsi al cinema a quasi quarant’anni, Pasolini è stato poeta, romanziere, giornalista, pittore, drammaturgo, attore e una delle voci pubbliche più dissidenti della politica e nella cultura italiana. Ha colto il racconto degli italiani in un momento cruciale della loro storia culturale. Il “miracolo economico” degli anni ’50 e ’60 stava rapidamente sostituendo un’economia rurale con il capitalismo dei consumi e rappresentava ciò che considerava una corruzione morale mascherata da libertà. Come Bernardo Bertolucci, anche Pasolini iniziò sotto l’influenza del classico neorealismo italiano. Il primo film di Pasolini, Accattone (1961), spesso citato come l’ultimo film neorealista, ritorna al piccolo mondo criminale della “borgata” romana, la periferia, che ha esplorato nei suoi precedenti romanzi. Tuttavia, pur condividendo alcune somiglianze superficiali con il neorealismo classico, l’utilizzo di attori non professionisti, le riprese in luoghi reali e uso della camera a mano libera, Pasolini ha trovato uno squallido lirismo che celebrava l’opposizione radicale del sub-proletariato criminale alla crescente cultura dei mass media e, così, la vita materiale. Il protagonista Vittorio, che preferisce essere chiamato Accattone, è un antieroe simile a Cristo. Proprio come Cristo, che si è associato ai più reietti della società, anche Accattone trova il suo posto tra ladri e prostitute. Nell’abiezione dei vinti, Pasolini vede una “sacralità naturale”, immagini del sublime in mezzo alla sporcizia, e usa i simboli dell’iconografia cristiana per catturarli. Come nei film di Robert Bresson, come A Man Escaped (1956) e Pickpocket (1959), il sacro può entrare solo quando c’è un vuoto per riceverlo. Questa commistione persistente tra sacro e profano evoca un regno spirituale ispirato da quello che Pasolini chiamava “una vitalità disperata” e “un amore per la realtà”. Pasolini considerava il cinema come una scrittura con la realtà, che, quando veniva manipolata a fini di autoespressione, avrebbe prodotto un cinema di poesia. Tutti i bagagli intellettuali nei suoi film, relativi al sociale, al politico e al culturale, sono sempre stati sostenuti da un progetto per reinventare l’estetica del cinema.

Dopo Mamma Roma del 1962, interpretata da una strepitosa Anna Magnani, scrisse e diresse un’altra esplorazione del borgo romano, una versione de Il vangelo secondo Matteo (1964 ). Girato nel sud dell’Italia con un cast di non professionisti, Pasolini ha trasceso la grammatica convenzionale del film in un monocromo miracoloso e ha combinato avventurosamente la musica classica di Bach con le canzoni dell’autentica artista blues Odetta. Il Gesù di Pasolini, interpretato da uno studente catalano che assomiglia a figure della pittura del Rinascimento, è una creazione fieramente politica, i cui attacchi all’ipocrisia e alla giustizia sociale sono al tempo stesso rivoluzionari e reverenziali. Pasolini ha utilizzato una macchina da presa in movimento, con obiettivi zoom per riprendere i volti e i corpi di persone reali in paesaggi reali, mostrando un’empatia quasi cristica verso tutte le creazioni di Dio e facendo apparire il passato storico, un presente terroso e vissuto. La sua raffigurazione contenuta dei miracoli e della crocifissione contrastava con il pittoricismo sentimentale delle offerte hollywoodiane come Il Re dei re di Nicholas Ray (1961). Tuttavia, come nel lavoro di registi quali Robert Bresson, Carl Theodor Dreyer, Ingmar Bergman e Terrence Malick, c’è qualcosa di molto più grande e più universale nel contesto e all’interno della teologia.

Nella sua opera successiva, Pasolini prese le distanze da quella stessa teologia, riflettendo in seguito che il suo Vangelo conteneva momenti di “disgustoso pietismo”, e si mosse verso la morte dell’ideologia e dell’evasione esotica. Uccellacci e uccellini (1966), Teorema (1968) e Porcile (1969) hanno rappresentato la sua crescente disillusione verso ogni possibile alternativa sociale a un futuro rivoluzionario. Tra il 1971 e il 1974, Pasolini diresse Il Decamerone, I racconti di Canterbury e Il fiore delle mille e una notte, tre adattamenti di opere medievali, etichettati collettivamente come La trilogia della vita, che celebrano la sensazione primordiale dell’atto sessuale.

Pasolini morì poche settimane prima della proiezione ufficiale di quello che sarebbe stato il suo ultimo film, Salò, o i 120 giorni di Sodoma (1975), un adattamento inesorabilmente crudele del catalogo del degrado e della tortura del marchese de Sade, che Pasolini intendeva commento caustico sulla brutalità del fascismo. Sulla sua morte, Antonioni disse che sarebbe diventato “una vittima dei suoi stessi personaggi”. La nuova Italia capitalista, come in realtà aveva previsto lo stesso Pasolini, divora i suoi figli disobbedienti.

Roberto Greco per reference.post