Tra il 16 e il 19 marzo 1980 ben tre magistrati morirono per mano di due dei più pericolosi gruppi terroristici che hanno segnato quelli che furono definiti gli “anni di piombo”

Mentre la Sicilia cercava di capire cosa stesse succedendo, dopo la mattanza che nel 1979 aveva colpito la città di Palermo, in continente si facevano ancora i conti con gli ultimi colpi di coda delle Brigate Rosse e di Prima Linea. Il 1979 sarà ricordato come l’anno in cui, come suggerisce Piero Melati nel suo ultimo lavoro, “La notte della civetta”, Cosa Nostra comincia ad agire con la stessa cifra stilistica dei Narcos centro-sud americani. Sotto il piombo mafioso cadono giornalisti, Mario Francese, poliziotti, Filadelfio Aparo e Giorgio Boris Giuliano, politici, Michele Reina e magistrati, Cesare Terranova, ossia tutti quelli che, in prima persona, indagano non solo sul quotidiano malaffare ma anche sull’enorme traffico di stupefacenti che sta diventando il principale business delle mafie e che renderà la Sicilia l’epicentro del più grosso interesse economico sul quale le mafie abbiamo mai messo mano, il traffico di droga. Ma anche in continente, sempre nel 1979, nessuno scherzava, anzi. Tra il 24 gennaio e 7 dicembre del 1979, le Brigate Rosse uccisero un sindacalista, cinque poliziotti e tre carabinieri.

L’anno successivo, il 1980, l’attacco allo Stato da parte delle Brigate Rosse continua e l’8 gennaio vengono uccisi tre poliziotti, Antonio Cestari, Rocco Santoro e Michele Tatulli. Il 25 gennaio toccò a due carabinieri, Antonino Casu ed Emanuele Tuttobene. Poi fu il momento di Sergio Gori, dirigente della Montedison ma decisero di alzare il tiro e, uno dopo l’altro, caddero, a distanza di appena due giorni, due magistrati, Nicola Giacumbi e Girolamo Minervini, il primo il 16 ed il secondo il 18 marzo. Prima Linea, dal canto suo, si avviava alla trasformazione. Nel 1980, infatti, il gruppo inaugura ufficialmente la sua esperienza romana, necessaria a quella logica di espansione territoriale, dettata da esigenze logistiche per l’intensificarsi dell’azione repressiva, oltre che per diffondere il messaggio politico del movimento. Il 1980 vede prevalere, nella dialettica interna al gruppo, l’ala radicale di Prima Linea e delle posizioni favorevoli alla radicalizzazione dello scontro che, nel mese di gennaio, nella Conferenza del movimento a Morbegno, sarà quindi sancita come mozione predominante. Da questa riflessione maturò poi, da lì a breve, l’attentato contro Guido Galli, magistrato e docente di Criminologia all’Università Statale di Milano.

Anche Cosa Nostra non rimase “con le mani in mano” e, nei primi mesi del 1980 uccise Piersanti Mattarella, presidente della Regione Siciliana e Emanuele Basile, capitano dei carabinieri che ereditò, da Giorgio Boris Giuliano, il faldone sui “corleonesi”. Inoltre la criminalità organizzata di stampo mafioso siciliana stava cercando di trasformare l’Italia in un corridoio fluido che gli permettesse di uscire dalla logica territoriale del pizzo e delle estorsioni e, quindi, di creare una generazione di “anime perse” grazie al traffico e allo spaccio diffuso di sostanze stupefacenti, ignorando completamente l’esistenza di uno Stato comportandosi come i “nuovi” padroni della penisola. Le infiltrazioni mafiose nel nord dell’Italia erano, nel 1980, oramai forti e potevano contare non solo su un’ampia rete di sodali ma anche su un ottimo controllo dell’economia locale, anche grazie all’iniezione di denaro derivante dal traffico di droga. Tanto e tale da rendere fertili territori in cui l’imprenditoria arrancava a causa della mancanza di liquidità.

Dall’altro lato le frange estremiste, di destra e di sinistra, continuavano la loro lotta per il ribaltamento dello Stato democratico. Interessi contrapposti? Forse solo in parte. Di fatto, lo Stato cercò di contrastare il terrorismo anche, e soprattutto, grazie al lavoro di Carlo Alberto dalla Chiesa, non ancora generale. Lo stesso dalla Chiesa che fu mandato, più tardi, in Sicilia a combattere, armato solo della sciabola d’ordinanza, la mafia siciliana anzi, l’evoluzione della mafia siciliana che dalla Chiesa aveva già combattuto quando, nel 1949, fu inviato in Sicilia, al Comando forze repressione banditismo, agli ordini del colonnello Ugo Luca, e poi dal 1966 al 1973 quando ci tornò con il grado di colonnello, al comando della Legione carabinieri di Palermo.

Non c’è mai stata conversione d’interessi? Di fatto Pippo Calò, dalla sua residenza romana, proprio in quegli anni stava tessendo, o meglio continuando ad alimentare, i rapporti tra Cosa Nostra e l’estremismo di destra, da un ventennio asservito alla parte meno nobile dello Stato mentre, a Milano, Gaetano Fidanzati apriva al business del traffico d’armi grazie ai suo rapporti con Giovan Battista Licata, un trafficante d’armi internazionale di origini siciliane. Armi e droga. Bombe e raffiche di AK-47. Potere. Sempre e comunque. Ideali? I medesimi. Iniziò tutto, di nuovo, quando, nel marzo del 1980, Salerno, Roma e Milano diventarono il teatro di tre attentati perpetrati nei confronti di altrettanti magistrati. Era passato poco più di un mese, era il 12 febbraio, da quando Vittorio Bachelet, vicepresidente del CSM e docente universitario, fu assassinato dalle Brigate Rosse all’interno dell’università di Roma. Al termine di una lezione, mentre conversava con la sua assistente Rosy Bindi venne assassinato da un nucleo armato delle Brigate Rosse, sul mezzanino della scalinata che porta alle aule professori della facoltà di Scienze politiche della Sapienza a Roma, colpito con sette proiettili calibro 32 Winchester.

Il Procuratore capo della Repubblica di Salerno Nicola Giacumbi aveva da poco tempo finito di lavorare ad un dossier sulle Brigate Rosse, in merito all’incendio della filiale locale della Fiat nella cui sede furono fatte esplodere con cariche di tritolo numerose autovetture. Sapeva benissimo, lui come tutto il Palazzo di giustizia, che a Salerno doveva succedere qualcosa, e che sul territorio c’era un’agguerrita cellula delle Brigate Rosse. Ma tutto questo non gli fece mai cambiare idea. Il 16 marzo 1980, al cinema Capitol, proiettano “Kramer contro Kramer”. Nicola Giacumbi e la moglie Carmela hanno assistito alla proiezione delle 18:30 e, verso le 20:00, escono dal cinema e si avviano verso casa. Sono arrivati quasi all’ingresso quando, dall’ombra spuntano due uomini. Impugnano due pistole munite di silenziatore. All’improvviso quattordici colpi sono esplosi verso Giacumbi che muore all’istante, la moglie è viva per un soffio: un bossolo le ha sfiorato la nuca. Quando arresteranno i suoi assassini, l’anno dopo, emergerà una verità incredibile: Giacumbi era stato ucciso per vendicare la morte del militante di sinistra romano Valerio Verbano, avvenuta nel quartiere Monte Sacro il 22 febbraio 1980.

Girolamo Minervini, il giorno prima della sua morte, era stato nominato Direttore Generale degli Istituti di Prevenzione e Pena. Il Questore di Roma, il dottor Augusto Isgrò, gli aveva imposto la scorta. I suoi predecessori, Riccardo Palma e Girolamo Tartaglione, erano stati entrambi nel mirino delle Brigate Rosse e uccisi appena due anni prima. Per lui, si volevano prendere misure straordinarie. Minervini rifiutò la scorta. Sapeva che il suo destino sarebbe stato segnato dalla nomina e non voleva che i ragazzi della scorta potessero morire con lui. Parlò con il figlio, Mauro, e gli diede indicazioni qualora le Brigate Rosse l’avessero ucciso. Affrontò con grande lucidità la prova che lo Stato gli aveva affidato. Erano circa le 8:15 del mattino del 18 marzo 1980, un martedì. Girolamo Minervini esce dalla sua abitazione, in via Balduina 135, a Roma. Un saluto alla portinaia e si avvia verso la fermata dell’autobus. Dopo qualche minuto, mosso più dal traffico romano che non dal suo motore, arriva la vettura della linea 991. Minervini sale e si posiziona sul fondo, vicino alla macchinetta obliteratrice. L’autobus inizia la sua corsa. Raggiunge via Ruggero di Lauria. Alla fermata, il bus si ferma e si aprono le porte. Un’auto lo sorpassa a destra mentre si sta fermando. Dall’auto escono due uomini, Francesco Piccioni e Sandro Padula, che salgono sul bus. All’improvviso, il forte rumore dei colpi di un’arma da fuoco rimbomba all’interno dell’autobus. Girolamo Minervini viene colpito. Si accascia aggrappandosi alla macchinetta obliteratrice mentre il suo impermeabile si colora del suo sangue.

Guido Galli era un magistrato e professore ordinario di Criminologia presso l’Università Statale di Milano che fu anche segretario dell’ANM, l’Associazione Nazionale Magistrati. Fu lui che concluse la maxi-inchiesta sul terrorismo iniziata nel settembre del 1978 con l’arresto di Corrado Alunni – terrorista italiano attivo nelle Brigate Rosse ma anche in Prima Linea e nelle Formazioni Comuniste Combattenti – e il ritrovamento del covo in via Negroli, a Milano. Questo lo mise nel mirino di Prima Linea. Successe il 19 marzo 1980 verso le 16:50, in via Festa del Perdono, a Milano nella sede della Statale, l’università milanese. Guido Galli attendeva l’inizio della sua lezione. Sedeva su una panca, di fianco all’aula 309. Stava sfogliando il Codice. Due uomini si avvicinarono a lui. Il corridoio era deserto. Uno dei due gli chiese se fosse lui il professor Galli, come se si trattasse di un qualsiasi visitatore della facoltà. Alla risposta affermativa del professore, l’uomo estrasse una pistola calibro 38 Special e sparò un primo colpo che lo colpì alla schiena poi, una volta caduto a terra, il killer sparò altri due colpi, alla nuca. Guido Galli muore. I killers si danno alla fuga. I colpi di pistola rimbombarono nel lungo corridoio e la loro eco raggiunse tutto l’edificio.

Morirono così, nell’arco di quattro giorni, tre valenti magistrati. L’attacco al cuore dello Stato continuò anche dopo quel mese di marzo. Il 28 maggio un commando terroristico uccise il giornalista del Corriere della Sera Walter Tobagi. L’assassinio fu rivendicato dalla Brigata 28 marzo fondata dal brigatista Marco Barbone. Il 13 giugno, a New York, ci fu l’arresto di Michele Sindona, per il fallimento della Franklin National Bank. Un mese dopo venne indiziato anche per l’omicidio di Giorgio Ambrosoli.

L’archivio di Valerio Verbano, documenti e fotografie che documentavano le attività dell’eversione di destra a Roma, scomparve dopo il suo assassinio, perso nei meandri del palazzo di Giustizia romano. Finì sulla scrivania del giudice Mario Amato. Le indagini gli permisero di ricostruire le connessioni tra destra eversiva e la Banda della Magliana, che già vantava collaborazioni regolari con Pippo Calò, ambasciatore di Cosa Nostra a Roma. Inoltre intuì i legami con sottobosco finanziario, economico e potere pubblico. Aveva, inoltre, identificato la struttura dei NAR, organizzati in maniera non dissimile da come erano organizzate le Brigate Rosse. Amato fu tra i pochi, dopo il giudice Vittorio Occorsio, anche lui ucciso dall’eversione di destra il 10 luglio 1976, a tentare una lettura globale del terrorismo nero. “Attraverso i parziali successi delle indagini su singoli episodi terroristici – dichiarò Amato davanti al Consiglio Superiore della Magistratura il 13 giugno 1980, solo dieci giorni prima di essere ucciso – sto arrivando alla visione di una verità d’assieme, coinvolgente responsabilità ben più gravi di quelle stesse degli esecutori materiali degli atti criminosi”. Era il 23 giugno 1980 quando, verso le 7:55, Mario Amato uscì da casa per dirigersi verso Piazzale Clodio. Percorse via Monte Rocchetta e svoltò per viale Ionio, per raggiungere la fermata dell’autobus della linea 395. Un uomo, alto, viso scoperto, capelli bruni e abiti chiari, appare alle sue spalle. Estrasse una Colt Cobra calibro 38 ed esplose un colpo diretto alla nuca di Amato. Poi sparò due colpi in aria. Erano le 8:05. Mario Amato rimase a terra mentre il suo aggressore raggiunse un suo sodale che lo stava attendendo su una motocicletta, una Honda 400.

Alle 20:45 del 27 giugno scomparve dai radar, 40 miglia nautiche a nord di Ustica, un DC9 della compagnia Itavia che da Bologna doveva raggiungere Palermo. Nessun superstite tra i 4 membri dell’equipaggio e i 77 passeggeri. Poi arrivò il 2 agosto, l’inizio delle tradizionali “ferie” per la maggioranza degli italiani. E la bomba, esplose all’interno di una stazione ferroviaria, a Bologna alle 10:25, nella sala d’attesa, causando 85 morti e 203 feriti. Poi, il 6 agosto di quel 1980, fu ucciso Gaetano Costa. Era il Procuratore della Repubblica di Palermo. Nessuno è stato condannato per la morte del dottor Costa. A continuare la sua opera, fu l’amico e collega Rocco Chinnici, tra i pochi che allora ne compresero e appoggiarono gli intenti; a lui tre anni dopo toccherà la stessa triste sorte.