Nel giro di 72 ore ben 8372 persone di religione musulmana furono arrestate e deportate, in attesa della morte, in un complesso denominato “White house”
È l’11 luglio 1995. Siamo a Srebrenica. Sono le prime ore del pomeriggio quando le truppe serbo-croate, al comando di Ratko Mladic, entrano in città. I “caschi blu”, inviati sul posto dall’ONU per garantire la pace, sparano alcuni colpi in aria prima di arrendersi e lasciare che l’orda di Mladic invada la città. Immediatamente i suoi uomini iniziano a radunare, per poi uccidere, tutti gli individui maschi in età da servizio militare. Nel giro di 72 ore ben 8372 persone di religione musulmana furono arrestate e deportate, in attesa della morte, in un complesso denominato “White house”. All’epoca della strage si combatteva intorno a Srebrenica da oramai da tre anni. Gli scontri erano cominciati nel 1992 quando la Bosnia aveva dichiarato sua indipendenza dalla Jugoslavia in seguito a un referendum. Nei territori a maggioranza serba c’erano molte enclave musulmane contro cui i miliziani serbo-bosniaci e i regolari serbi si accanivano praticando quella che da allora è diventata famosa come la “pulizia etnica”, un termine che fu coniato dagli stessi leader serbi. I paesi musulmani venivano sistematicamente distrutti e i loro abitanti espulsi. Lo scopo era creare un territorio omogeneo, dove abitassero soltanto serbi e che sarebbe stato facile da annettere alla Serbia una volta arrivati al tavolo delle trattative. Nel corso del 1993 la situazione di Srebrenica era diventata disperata: decine di migliaia di rifugiati vivevano in città dove non c’era quasi più acqua e cibo. Ad aprile l’ONU aveva proclamato Srebrenica una “safe zone” in cui entrambe le parti avrebbero dovuto interrompere attività militari e aveva inviato sul posto un contingente militare olandese.
Per tutto il giorno seguente i militari olandesi e i rifugiati radunati intorno alla loro base assistettero a sporadici episodi di violenza. Alcuni uomini furono portati via e uccisi, alcune donne violentate. Nelle 48 ore successive le esecuzioni procedettero in maniera precisa e uniforme. I gruppi di uomini appena catturati venivano prima portati all’interno di scuole oppure magazzini abbandonati. Qui gli venivano legate le mani dietro la schiena, venivano spesso bendati e gli venivano tolte le scarpe per essere certi che non riuscissero a fuggire. Dopo alcune ore di attesa i prigionieri erano imbarcati su camion e autobus, spesso gli stessi utilizzati poche ore prima per portare via le loro famiglie dalla città. A quel punto erano trasportati lontani dalle zone abitate, fatti scendere, messi in fila e uccisi con un colpo alla testa. I loro corpi venivano poi spinti con alcuni bulldozer dentro fosse comuni e sepolti. Mladic e l’allora presidente della repubblica serba di Bosnia, Radovan Karadžić, fuggirono e vennero arrestati soltanto molti anni dopo il massacro. Oggi sono ancora sotto processo con l’accusa di genocidio presso il tribunale dell’Aia istituito dalle Nazioni Unite per indagare sui crimini compiuto nel corso della guerra. Altri due ufficiali dell’esercito serbo-bosniaco sono stati condannati per la strage e uno dei due è stato condannato con l’accusa di genocidio. Nel 2004 la Serbia ammise la sua responsabilità nel massacro, ma da allora il caso è rimasto controverso in particolare per l’utilizzo del termine genocidio.
Roberto Greco per referencepost.it