Quel 9 maggio 1978 non fu riconsegnato solo il corpo morto di un politico ma anche quello di un eccelso insegnante

Aldo Moro, originario di Maglie, in provincia di Lecce, classe 1916. Per lui l’insegnamento aveva priorità su tutto, anche sulla politica e, in alcuni momenti, anche alla sua stessa famiglia. Si tratta di un aspetto poco noto dello statista il cui corpo è stato riconsegnato senza vita dalle Brigate Rosse il 9 maggio 1978. Una barbarie che seguì la strage, avvenuta 55 giorni prima, in via Fani quando le stesse Brigate Rosse trucidarono Oreste Leonardi, Francesco Zizzi, Domenico Ricci, Raffaele Iozzino e Giulio Rivera, i cinque uomini della sua scorta, tre poliziotti e due carabinieri, che furono assassinati per rapirlo il 16 marzo 1978.

Aldo Moro il 13 novembre 1938, all’età di soli ventidue anni, consegue la laurea in Giurisprudenza con il massimo dei voti, la lode e, cosa non consueta, la proposta di stampa della tesi che presentò alla commissione d’esame dal titolo “La capacità giuridica penale”, che in seguito diventerà il nucleo fondante di una più ampia opera monografica. Il suo relatore è il professor Biagio Petrocelli, noto penalista, che percepisce subito le indubbie qualità del giovane laureato. Una settimana dopo la discussione della tesi, Petrocelli lo nomina assistente volontario alla cattedra di Diritto penale all’Università di Bari. Aldo Moro aveva frequentato il liceo classico “Archita” di Taranto, risultando spesso il migliore dell’istituto. All’esame di maturità, Aldo Moro, si guadagna voti eccellenti soprattutto in storia, filosofia e in matematica. La scelta di iscriversi, quindi, all’università diventa una scelta naturale. Il suo percorso accademico è perfetto. Una carriera costellata di straordinari successi, superando i 20 esami previsti con tutti 30 e ottenendo la lode in 13 esami. In quel momento storico, il rettore dell’ateneo barese che Moro frequenta è Biagio Petrocelli, nominato rettore all’età di soli 45 anni, che diventa il suo mentore accademico. Aldo Moro incontra anche la figura di Michele Barillari, già rettore prima di Petrocelli, in quel momento docente di filosofia del diritto.

Sarà nel 1941 che Aldo Moro otterrà la libera docenza in Filosofia del Diritto e Politica Coloniale e, l’anno successivo, quella in Diritto Penale, una delle cattedre più prestigiose. Nel 1963, Aldo Moro consegue la cattedra di Istituzioni di Diritto e Procedura Penale alla Facoltà di Scienze politiche dell’Università La Sapienza di Roma, carica che terrà fino al giorno del suo rapimento.

Il professor Aldo Moro, sin dal 1941 diviene per i suoi studenti un costante punto di riferimento sia accademico sia di vita. Vive l’insegnamento con passione e impegno assoluti, facendoli diventare, in breve la sua principale passione che persegue con ostinazione e spirito di sacrificio. Dichiarò esplicitamente che il suo lavoro fosse insegnare e che la politica veniva dopo. Il professor Moro adorava stare con i suoi studenti, quasi a considerarli propri figli da formare alla vita, sino a scatenare, in alcuni casi la gelosia della sua stessa famiglia. Nonostante i suoi innumerevoli impegni politici, non sarà assente neppure a una sola lezione. Qualora altri impegni, come quelli politici, gli impedissero di essere fisicamente in facoltà, provvedeva a recuperare la lezione, invitando addirittura gli studenti nella sua casa romana ma anche nel suo ufficio in via Savoia o, come accade più volte, nel suo ufficio al Ministero degli Esteri. Aldo Moro aveva, inoltre, la caratteristica di non abbandonare immediatamente l’aula al termine della lezione. Spesso, fermarsi, voleva dire poter continuare, con “i suoi ragazzi” per parlare di politica, attualità, filosofia, diritto, ma anche di cinema senza schemi ideologici preordinati.

Adorava i film western, quelli polizieschi e conosceva a memoria molte battute di Totò che, si racconta, imitasse alla perfezione. Altra sua grande passione furono le camminate, pratica che gli permetteva di pensare e, soprattutto riflettere. Spesso il suo compagno durante queste camminate era Oreste Leonardi, che morirà durante il suo rapimento che era non solo la sua scorta ma, e soprattutto, un amico. Durante la sua attività politica e parlamentare non si dimentico mai dell’importanza della scuola e fu proprio il suo governo, nel 1963, che varò la demolizione dell’impianto della “riforma gentiliana” attraverso istituendo la scuola media unificata, facendo terminare il concetto di avviamento professionale, la scuola di serie B voluta da Gentile, destinata ai figli del popolo, quelli che, pur avendo potenzialità anche maggiori dei cosiddetti “figli di papà”, non avevano i mezzi per frequentare altro. Il professor Moro portava spesso i suoi ragazzi a visitare gli istituti carcerari per far sì che potessero toccare senza inutili filtri, una realtà drammatica. Il suo intento era far comprendere ai suoi studenti l’incubo della vita carceraria e come, in quei luoghi, il tempo restasse sospeso. A tal proposito, spesso ripeteva che la pena maggiore non è tanto la reclusione in sé, quanto la lontananza dagli affetti personali, il distacco dalla vita quotidiana e la costante incertezza del domani. Da sempre Aldo Moro fu contrario alla pena dell’ergastolo, ritenendo il concetto di fine pena mai, disumano e costituzionalmente non accettabile.

Quando, quel 16 marzo 1978, la sua auto è bloccata in via Fani dal gruppo di fuoco delle Brigate Rosse e lui viene rapito, Aldo Moro ha con sé alcune delle tesi di laurea dei suoi allievi in una delle borse che portava sempre con sé. Rimarranno, crivellate di colpi e sporche di sangue, all’interno dell’auto. La voce dei suoi studenti si levò alta e forte qualche giorno dopo quando firmarono un appello per chiedere al governo, alla Democrazia Cristiana e a tutte le altre forze politiche, di riconsiderare la linea della trattativa perché ritenevano impossibile che nessuno stesse facendo qualcosa di concreto per salvare la vita al loro Professore.