Dopo le ultime indicazioni contenute nel DPCM del 1° aprile qualcuno ha pensato che la cosiddetta Fase2 fosse a portata di mano. Certo, avremmo dovuto rinunziare a tutte le nostre abitudini per ancora un paio di settimane. Avremmo dovuto immaginare una Pasqua solitaria. Avremmo dovuto stringere i denti ancora per un po’ ma subito abbiamo pensato al lungo ponte tra il 25 aprile ed il 1° maggio ed abbiamo sorriso. Qualcuno ha pensato addirittura che il 25 aprile sarebbe stato di buon auspicio e che, quest’anno, avrebbe rappresentato una doppia festa della liberazione. Poi, oggi, una nuova doccia fredda, anzi gelata. Il capo della Protezione Civile, Angelo Borrelli, in un’intervista a Radio Anch’io su Rai Radio1 ha distrutto le nostre speranze. A casa anche per il 1° maggio? “Credo proprio di sì, non credo che passerà questa situazione per quella data. Dovremo stare in casa per molte settimane” dice Borrelli.

Stare a casa. Questo è il mood che continua ad assillare ognuno di noi  spesso portandoci ad invidiare chi, tutti i giorni, deve andare al lavoro per evitare la frenata definitiva dell’Italia e di tutti noi. Le prime pagine dei giornali sono piene di numeri che riportano il numero di morti, in Italia, in Europa e nel mondo. I social sono invasi di post e link che riportano, indifferentemente, analisi scientifiche, fake-news, inni alla rivolta e, come al solito, esternazioni di odio nei confronti di chi non la pensa come loro. Come se il singolo pensiero potesse essere il pensiero dell’intera società. Ma questo è uno dei mali che solo noi umani possediamo. Strade vuote, ma non troppo. Fatta la legge, trovato l’inganno. Lo diceva spesso mio nonno, mentre leggeva il giornale o guardava il telegiornale. E così è stato anche per i vari DPCM che hanno regolato la nostra vita nelle ultime settimane. Fatto il DPCM, trovate le deroghe. E così la gente decide di andare a fare la spesa due o tre volte al giorno mentre, prima dell’emergenza sanitaria, la faceva al massimo due volte alla settimana. E allora tutti podisti, anche se abbiamo dovuto comprare le scarpe adatte online perché non le avevamo mai possedute.

Solo qualche giorno fa, che sembrano però un’eternità, eravamo in emergenza sanitaria e io mi recavo in radio, al lavoro. Era un sabato mattina ed era una bellissima giornata, dal punto di vista climatico. Ho deciso di non prendere l’auto, quella mattina e attraversare a piedi, con la mia auto-certificazione compilata in borsa, la città. Ci vogliono poco più di venti minuti a piedi tra casa e la sede della radio. Ho percorso un tratto della via Libertà, o meglio viale della Libertà, come recita la toponomastica della città di Palermo, viale che fu sviluppato nel settecento, anche se in realtà inizialmente la nobiltà palermitana era molto restia ad allontanarsi dal centro, quella zona era considerata aperta campagna, destinata ad agrumeto. La prima vera spinta verso Nord per lo sviluppo della strada avvenne alla fine dell’Ottocento grazie all’Esposizione Nazionale la cui sede provvisoria fu posta proprio all’inizio del viale. Al termine della mostra, la struttura espositiva venne abbattuta e la zona iniziò ad essere lottizzata con villette realizzate dai migliori architetti dell’epoca durante quello che viene ricordato oggi come “il sacco di Palermo”. Tra queste caddero le ville Genuardi, Raineri, Salandra e Scandurra di Giovan Battista e Francesco Paolo Palazzotto, e la villa Deliella di Ernesto Basile, tutte completamente distrutte e, ancora esistenti, una palazzina abitata dai Florio, la palazzina Alliata Cardillo, la palazzina Fatta della Fratta, e altre.

Era, appunto, un sabato. Per la precisione sabato 21 marzo. Per quella giornata, Palermo, non avrebbe dovuto come si trovava ad essere. Per quella giornata, era prevista un’affluenza di decine di migliaia di persone che avrebbero invaso, letteralmente, la città. Il 21 marzo, oltre ad essere il primo giorno di primavera, è il giorno dedicato alla celebrazione della Giornata della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie.

L’iniziativa nacque nel 1996, dal dolore di una madre che ha perso il figlio nella strage di Capaci e che non sentiva mai pronunciare il suo nome nelle celebrazioni che, ogni anno, si svolgevano il 23 maggio. Una madre che viveva un dolore che era diventato insopportabile perché alla vittima viene negato anche il diritto di essere ricordata con il proprio nome. Finalmente, il 1° marzo 2017, con voto unanime della Camera dei Deputati, fu stata approvata la proposta di legge che istituì e riconobbe il 21 marzo quale “Giornata della Memoria e dell’Impegno in ricordo delle vittime delle mafie”.

E dal qual 1996, ogni anno, in una città diversa, un lungo elenco di nomi scandisce la memoria che diventa impegno quotidiano. Questo recitare i nomi e i cognomi trasformati in un interminabile rosario civile, ha l’obiettivo di farli vivere ancora, per non farli morire mai. E Palermo, quest’anno, era la sede destinata alla celebrazione. Ma, quel giorno, le strade della città erano vuote. L’odore della zagara veniva portato da un leggero scirocco. Anch’esso immerso nel silenzio della città. Mandorli in fiore. Silenzio. Perché decisi di andare a piedi? Avevo bisogno di pensare. Di pensare a quella giornata. Di pensare a tutte quelle persone che hanno pagato con la vita la loro battaglia di contrasto alle mafie, vero virus di questa società, per il quale nessuno si preoccupa di trovare un vero vaccino. Negli ultimi anni abbiamo sentito più volte gli slogan “Abbiamo sconfitto la mafia” oppue “Cattureremo Matteo Messina Denaro entro l’anno” ma, sempre più spesso, queste frasi risuonano come quelle del cardinal Ruffini, quelle che fece con una Pastorale dal titolo “Il Vero volto della Sicilia” che licenziò dal Palazzo vescovile con la data 27 marzo “Domenica delle Palme” 1964. Ma che la stampa più vicina alla Curia rese nota per intero il giorno 27, il Venerdì Santo. La mafia, per il cardinale, non era precisamente la cattiva pianta le cui “cosche” lottavano ferocemente per spartirsi la città, ma era soltanto il nome che una pubblicistica denigratrice continuava a dare a una forma associativa di delinquenza uguale a quella del resto d’Italia. A distanza di 56 anni abbiamo pagato un prezzo altissimo, anche per la sottovalutazione che le massime autorità dello stato, diversi intellettuali, molti giornalisti, hanno dato al fenomeno mafioso. Non buon ultimo il presidente della Regione Siciliana Nello Musumeci che, il 5 marzo scorso durante l’inaugurazione la nuova sala stampa a Palazzo Orleans, intitolata a Beppe Alfano, il giornalista assassinato a 48 anni dalla mafia, ha dichiarato “ci vorranno 10-15 anni per bonificare la pubblica amministrazione dalle scorie e dalle contaminazioni della mafia, nate nel ’43 come sostenne il presidente Alessi, con l’arrivo delle truppe angloamericane”. Nate nel 1943? E allora Emanuele Notarbartolo chi l’ha ucciso? Era il 1893. E allora chi ha ucciso Mario Pancari il 12 marzo 1871? E chi ha ucciso Francesco Gebbia, Emanuela Sansone, Antonino D’Arpa, Vincenzo Lo Porto e Giuseppe Caruso, tutti morti tra il 1892 e il 1897? E chi ha ucciso i sindacalisti che hanno pagato con la vita proprio il contrasto ai latifondisti governati dai mafiosi? E chi ha ucciso Joe Petrosino nel 1909?

Abito a Palermo da poco meno di quindici anni. Durante questi anni, ho incontrato e conosciuto molti dei familiari di vittime di mafia. Ho conosciuto anche i sopravvissuti alle stragi di mafia. E proprio quel giorno, quel sabato 21 marzo, mentre la città profumava di primavera e di libertà non c’era nessuno. Ognuno era chiuso nelle proprie case. Con il proprio dolore. Con il proprio silenzio, in quella giornata che dava l’inizio alla primavera. Quando. Quando avrebbero potuto sentire il nome del proprio padre, fratello, parente o amico risuonare nella piazza? E penso a Graziella Accetta e a Ninni Domino, genitori di Claudio ucciso a soli undici anni durante lo svolgimento del maxi-processo. E penso a Vincenzo Agostino che non poggia più la mano sulla spalla della moglie, Augusta, scomparsa nel febbraio dello scorso. Simboli della ricerca di verità e giustizia. Ma Augusta è volata via senza aver conosciuto il nome ed il volto di chi, il 5 agosto 1989, uccise Antonino, il loro figlio, e la giovane moglie Ida, che portava in grembo una piccola creatura. E penso a Massimo Sole, che ancora piange suo fratello Giammatteo. E penso ad Alessandro, Emanuela, Selima, cui è stato ucciso il padre, Giorgio Boris Giuliano e a sua moglie Ines. E penso ad Antonio Vullo, che era su una delle auto blindate quel maledetto 19 luglio 1992 in via d’Amelio. E penso a Giovanni Paparcuri, che guidava l’auto del consigliere Chinnici e che l’ha visto disintegrarsi sotto i suoi occhi. E penso a tutti quelli che stanno pagando quotidianamente, pur essendo ancora vivi, per aver collaborato con lo Stato denunciando i loro estorsori. Stato che in questi casi si dimostra vuoto e silente. Come viale della Libertà. E’ vuoto, silente come la città che lo contiene. Non si sente né il rumore costante del traffico che lo percorre, tantomeno il romantico rumore degli zoccoli dei cavalli e delle ruote che scivolano sul selciato per andare a Mondello, la spiaggia della città. E oggi non si sentiranno i nomi delle vittime della mafia, penso mentre lo percorro. Nemmeno la Rai, la televisione di Stato, oggi alzerà la sua voce ergendosi al ruolo, spesso dimenticato, di servizio pubblico. Chiusi nelle proprie case. Soli con il nostro dolore e le nostre angoscie.

Era il 21 marzo scorso. Poco più di dieci giorni fa. Dieci giorni che sembrano essere dieci anni. Quando finirà? Quando torneremo alla normalità? Questa è la domanda che si sente emergere dalla città. Questa è la domanda cui si vuole dare una risposta annunciando le trasgressioni che si pensavo di fare. Appena sarà passata. Appena tutto tornerà normale. Ma, forse, non tornerà mai più, tutto come prima. Forse dovremo abituarci non tanto alla Fase 2 e alla Fase 3, ma al fatto che alcune cose saranno solo ricordo di chi le ha vissute. Ieri sera, Blob, il programma in onda su Rai 3, ha realizzato un collage che riguardava Demetrio Stratos. Ho (ri)visto l’ Arena Civica di Milano di quel 14 giugno 1979 quando si svolse, di fronte a settantamila persone, il concerto che era stato organizzato per raccogliere fondi a favore di Demetrio Stratos, il cantante degli Area colpito da una grave forma di anemia. Arrivammo troppo tardi. Demetrio era morto il giorno prima in una clinica di New York. Il concerto si trasformò in un omaggio a uno dei più grandi cantanti della scena progressive. Ero lì, sul lato sinistro del palco, mentre Gianni Sassi, operatore musicale e collaboratore di Demetrio Stratos, si avvicinò al microfono e nel suo sguardo si leggeva lo smarrimento “Non saprei cosa dire. La perdita e il vuoto che lascia Demetrio, sono incolmabili per la cultura musicale. Questa manifestazione è diventata una prova della sua popolarità e di quanto i giovani siano legati a lui e al suo lavoro” disse Gianni mentre i suoi occhi erano diventati lucidi.

Fase 2, Fase 3. Non sarà mai più come prima. Abbiamo avuto una grande fortuna. Abbiamo potuto vivere una grande stagione in cui riempivamo le piazze, i parchi, le arene e affollavamo i locali. Una stagione che, forse, non tornerà più.

Roberto Greco per Refereencepost.it