Il suo assassinio rientra nella scia di sangue che vede coinvolte le BR dopo l’istituzione del processo torinese contro i brigatisti Curcio e Franceschini. Vittorio Bachelet viene colpito proprio per il suo ruolo all’interno del Consiglio Superiore della Magistratura.

Siamo a Roma ed è il 12 febbraio 1980. Vittorio Bachelet varca i cancelli dell’ateneo capitolino poco dopo le 10 del mattino. Ha la sua solita andatura tranquilla, da uomo alto, corpulento, le lenti da miope, l’espressione mite e un po’ distratta. Per lui è un giorno di lavoro come un altro. Alle 11:30 la lezione termina e Bachelet se ne va. L’aula “Aldo Moro” è al pianterreno di Scienze politiche. Il professore comincia a salire lentamente lo scalone che lo porterà al grande atrio rialzato, quello della vetrata, invaso da un bel sole caldo. Accanto a lui c’è la sua assistente, la professoressa Bindi. Dietro, un paio di allievi, poi altri giovani. Sono le 11:50 e Bachelet mette il piede sull’ultimo gradino della scala. Conversa con la Bindi e non fa caso ad una giovane donna. Costei sta proprio al centro della vetrata, anzi la tiene socchiusa per metà. Ad un tratto, la sconosciuta si fa avanti. Raggiunge Bachelet alle spalle. Lo afferra con una mano e lo costringe a voltarsi. Partono i primi tre colpi di pistola, tutti al ventre del professore, a canna quasi schiacciata contro la vittima. La dottoressa Bindi urla, mentre la giovane donna arretra velocemente. Allora si fa avanti un uomo. Giovanissimo, poco più di un ragazzo. Impugna anch’egli una pistola. Il killer si china su Bachelet e gli spara qualche altro proiettile. Uno è diretto alla nuca ed è il colpo di grazia. Da questo istante tutto si confonde. Bachelet rantola accanto alla vetrata. Attorno a lui si agitano decine di studenti che renderanno poi testimonianze contraddittorie: “Il ragazzo terrorista camminava alle spalle di Bachelet e aveva addirittura seguito la sua lezione”. Si sente gridare: “Ci sono delle bombe, scappate, scappate!”. Nel cortile di Scienze politiche c’è il caos. Adesso molti fuggono davvero, gridando. I killer ripiegano con calma e vengono raccolti su di un’auto “A 112” che se ne va dal cancello di viale Regina Elena. Una uscita secondaria protetta da una catena che poi verrà scoperta tranciata. Una cosa è certa: gli assassini hanno agito con straordinaria freddezza. Suona mezzogiorno. Il cadavere del professore è in quell’angolo accanto alla vetrata, non ancora coperto dal lenzuolo. I cancelli della città universitaria vengono chiusi, ma ormai è troppo tardi: chi doveva fuggire, è fuggito. Lo Studium Urbis è preso d’assalto dalle Alfette blu in servizio di Stato.

Vittorio Bachelet è il vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura. Il suo assassinio rientra nella scia di sangue che vede coinvolte le BR dopo l’istituzione del processo torinese contro i brigatisti Curcio e Franceschini. Vittorio Bachelet viene colpito proprio per il suo ruolo all’interno del Consiglio Superiore della Magistratura. A guidare i terroristi è lo slogan: “la rivoluzione non si processa”. Dopo l’omicidio Moro, il clima di terrore si intensifica notevolmente, ed è proprio in questa atmosfera che nasce il progetto dell’assassinio del giurista. Uno dei due attentatori, Laura Braghetti, scrive nel 2003 un libro (“Il Prigioniero”) in cui rivela come si sia scelto di uccidere Bachelet perché non avendo la scorta era un bersaglio più semplice. La famiglia di Vittorio, usando come portavoce il figlio Giovanni, ha perdonato gli esecutori materiali dell’assassinio nel giorno stesso del funerale.

Vittorio Bachelet nasce il 20 febbraio del 1926 a Roma. Si laurea nel 1947 e diventa assistente volontario della cattedra di diritto amministrativo. Nel 1959 papa Giovanni XXIII lo nomina vicepresidente dell’Azione Cattolica Italiana con il compito di rinnovare l’intera associazione. Da questo momento il legame con la più famosa delle istituzioni cattoliche non si romperà più, e nel 1964 ne diviene presidente. Vittorio Bachelet viene nominato per ben tre volte concludendo il suo ultimo mandato nel 1973. Ma il suo attivismo cattolico non finisce, e sempre nel 1973 viene nominato vicepresidente della commissione pontificia per la famiglia. Inizia così a battersi per favorire una maggiore partecipazione dei laici alle attività cattoliche, e a difendere temi come quello dell’unità della famiglia. Nel 1976 entra in politica e viene eletto al consiglio comunale della sua città tra le file della Democrazia Cristiana; sempre nello stesso anno viene nominato vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura tramite designazione politica. I suoi scritti rivelano una vocazione laica ad agire cristianamente nel mondo.

Roberto Greco per Referencepost.it