Può la fame, il bisogno ossessivo di pane fare dimenticare la propria madre, la propria famiglia, i propri affetti, la propria terra? Sì, se soprattutto si è un ragazzino, poco più che bambino e in tempo di guerra. Anche se gli assalti degli aerei sono lontani, la fame è vicina, troppo, per essere sopportata. E i morsi allo stomaco sono più forti di qualunque legame.
Il libro di Sara Favarò, A&B Editrice, è magistralmente scritto in prima persona ma sostituendosi al protagonista, maschile, che si racconta attraverso le sue parole e, con un’operazione di difficoltà non indifferente, supera le barriere del genere e si offre ai lettori con una identità squisitamente maschile. In poco più di 150 pagine viene raccontata non soltanto la storia di un dodicenne che si trova, finalmente, lontano dalla fame, ma la vita di un nuovo paese, una nuova patria, Vicari, in cui, a cominciare dal paesaggio, tutto è diverso. Quando si ritrova insieme al suo amico, soldato, accompagnatore e ospite a dovere percorrere un lunghissimo tratto di strada tra le valli e le montagne dell’entroterra siculo, scopre una natura talmente rigogliosa che lo lascia a bocca aperta. E che dire dell’uva, unico ristoro dopo una infinita camminata per raggiungere la casa del suo accompagnatore, dai chicchi così grossi che nella sua terra non aveva mai visto. L’incontro con i palazzi sventrati dai bombardamenti degli “alleati”, svelano un retroscena di falsità che solo la guerra può mostrare, e Umberto, u picciriddu, com’era chiamato dalla famiglia che lo ospitava, apprende che non sempre l’amico è veramente tale e più pericoloso del nemico perché da lui non ti aspetteresti un tradimento. Sì, uccidere vittime civili e innocenti, è più che un tradimento. Umberto assiste alla rivolta del pane, a Palermo, e anche qui conosce ancora una volta la cattiveria degli uomini dello Stato che dovrebbero essere amici e invece si rivelano assassini. Da questo racconto, partendo dall’esperienza personale del protagonista, viene fuori una disanima dei fatti accaduti dal 1942 al 1944 nella città di Palermo e una ricostruzione storica di un periodo, senza filtri alcuni, senza manifestazioni di preferenze politiche perché i fatti raccontati sono soltanto Fatti; non sono espresse posizioni politiche ma, come un cronista ante litteram, u picciriddu racconta i fatti ed esclusivamente loro, senza filtri, appunto e senza menzogne. Il racconto si abbandona al più puro sentimento quando protagonista è la madre di “una bambina di non più di tre anni” che muore tra le macerie di uno dei tantissimi bombardamenti degli alleati. Umberto resterà traumatizzato da quella visione e dalla maledizione che la madre urlerà con tutte le sue forze, alzando gli locchi al cielo, come per colpire quegli aerei portatori di morte: “Maledetti! Dio vi stramaledica!”. Quest’immagine lo accompagnerà tutta la vita ed è stato questo l’input che lo ha portato, anche se in tarda età, a volere la pubblicazione di questo libro, con questo titolo che dà il senso compiuto alle pagine che descrivono quegli avvenimenti. Non c’è menzogna, non c’è paura, c’è la cronaca di alcuni cruciali avvenimenti e c’è una parte significativa della vita di questo ragazzo, ormai integrato nelle abitudini della cittadina dell’entroterra siculo, di cui ormai conosce benissimo anche il dialetto.
Una lettera disperata della madre lo costringe a tornare in provincia di Terni, da cui proveniva, ma le esperienze vissute ne hanno fatto un giovanotto in grado di prendersi cura dei suoi familiari e del suo vero luogo di provenienza.
E’ già cresciuto abbastanza, quando arriva a Collestatte, il suo paese, dove vive la sua famiglia e i suoi vecchi amici; ha avuto persino il battesimo dell’amore, il primo rapporto, le prime pulsioni che lo hanno traghettato nel mondo degli adulti.
E non poteva non portare un grande regalo alla sua famiglia dopo tutti quegli ininterminabili (per loro, non per lui) anni: e cosa poteva essere maggiormente gradita se non una grande quantità di pane, oltre ad altri generi alimentari?
Avventure, storia, amicizia, amore, desideri, fame, paesaggi, vita insomma, questo romanzo ci invita alla vita attraverso il suo racconto in cui la morte è presente ma sempre come spinta verso un avvenire di pace. E quale simbolo è più rappresentativo se non il pane, sì, il pane che viene spezzato durante la celebrazione della Messa e che diventando ostia, si fa il corpo di Cristo.
“Adesso che ho oltrepassato gli 80 anni, sento sempre più vivo il ricordo di quel periodo….Io, nato e cresciuto in un posto così lontano dalla Sicilia, ho vissuto lì gli anni cruciali della guerra…La guerra è una centrifuga frulla uomini. Una poltiglia di ideologie che nasconde interessi economici e di potere privato. Si uccidono gli uomini,…e ciò che viene lesa, completamente calpestata, è la dignità dell’uomo!…Adesso, se provo a guardarmi come se fossi davanti a un film, capisco quanto ero piccolo!…Avevo 12 anni. Veramente pochi! Pochi per tentare di capire le finte ragioni di una guerra. …Brutta cosa la guerra!…”
E’ questo, in parte, l’epilogo scritto da Umberto Bordoni, protagonista di questo libro il cui titolo, un’imprecazione, una maledizione, è la cifra che ha accompagnato il suo percorso di vita e anche le pagine che Sara Favarò ha scritto per lui.

Teresa Di Fresco