Qualche giorno fa, il 15 ottobre, nell’ambito delle iniziative riguardanti il 50° anniversario del furto della ‘Natività’ di Caravaggio, si è tenuto un incontro sul furto, che avvenne nell’Oratorio di San Lorenzo a Palermo in una notte tra il 12 e il 19 ottobre 1969. L’incontro-dibattito si prefiggeva di discutere di quello strano furto, alla luce di una serie di (non) nuove dichiarazioni rilasciate, una ventina di anni fa, da Monsignor Benedetto Rocco, al tempo parroco dell’Oratorio che custodiva il celeberrimo dipinto di Michelangelo Merisi, in arte Caravaggio. Il titolo dell’incontro era “La verità di Monsignor Rocco”. All’incontro, oltre a Massimo D’Anolfi, regista che ha realizzato l’intervista a monsignor Benedetto Rocco, c’erano il professor Leoluca Orlando, sindaco della città di Palermo, il giornalista Riccardo Lo Verso, il Presidente di Amici dei Musei Siciliani Bernardo Tortorici di Raffadali, il Direttore dell’Ufficio Beni Culturali della Curia Monsignor Giuseppe Bucaro, il Presidente della Federazione Italiana degli Amici dei Musei Italo Scaietta e il Maurizio Ortolan, già ispettore della Polizia di Stato che ha collaborato con il dottor Giovanni Falcone nel periodo delle dichiarazioni del mafioso diventato collaboratore di giustizia Francesco Marino Mannoia.

Il filmato? Una decina di minuti d’intervista, tratti da un lavoro di ricerca effettuato a Palermo da D’Anolfi una ventina di anni orsono. Una nuova verità che si sostituisce a tutte quelle che, in questi anni, sono state raccontate? Non precisamente. L’allora parroco dell’Oratorio, monsignor Benedetto Rocco, racconta attraverso l’intervista realizzata da D’Anolfi che, qualche mese dopo il furto, ricevette un’offerta da parte, o per conto, di Gaetano Badalamenti che gli offriva la restituzione del quadro in cambio di un’importante cifra di denaro. Don Rocco cercò di coinvolgere la Sovraintendenza ma, di questo, abbiamo solo la versione dello stesso Rocco che parla di un diniego e di disinteresse, nonostante, come dichiarato dallo stesso don Rocco, avessero ottemperato alla prima fase della trattativa, ossia alla pubblicazione, su un quotidiano, di un determinato trafiletto negli ‘Annunci economici’. Sovraintendenza con la quale l’allora don Benedetto Rocco era in contrasto perché erano state autorizzate, contro la sua volontà, le riprese della Rai nell’Oratorio per una trasmissione dal titolo ‘Capolavori nascosti’ che andò in onda nell’agosto dello stesso anno e alla quale don Rocco attribuiva, pubblicamente, la responsabilità del furto. Gli emissari dei boss fornirono anche un brandello della tela per dimostrarne il possesso, ma non fu sufficiente. La trattativa non fu avviata e non andò in porto nessuno scambio. Di fatto, monsignor Rocco ha forse evitato di rendere pubbliche notizie fondamentali per la ricerca della ‘Natività’ che, se fossero state a conoscenza degli investigatori, sarebbero potuto essere trasformate in tracce investigative. La stessa intervista, realizzata vent’anni fa e mai resa pubblica poteva e può essere utilizzata per mantenere alto il livello di ricerca del ‘Caravaggio’, lavorando ad esempio sui mercanti d’arte internazionale che, nel 1969, operavano in Europa.

Ma cosa ci faceva, su quel palco, uno degli ‘uomini di Falcone’? Cosa c’entra Falcone con il furto della ‘Natività’? Le verità su quel furto iniziano con una dichiarazione di Marino Mannoia durante un interrogatorio condotto dal dottor Falcone, nell’ambito del percorso di collaborazione del Mannoia stesso. La data stimata della dichiarazione si attesta tra il 30 ottobre e il 6 novembre del 1989. Senza nessuna sollecitazione da parte del dottor Falcone, Mannoia comincia a raccontare, con dovizia di particolari il furto, arrivando ad autoaccusarsene. Il racconto di Mannoia non fu trascritto agli atti per volontà dello stesso dottor Falcone, che ne rimandò la discussione e l’approfondimento in presenza di un suo collega che conoscesse i fatti, di cui lui non aveva contezza. Ma lo stesso Falcone, sul block-notes quadrettato che aveva sempre davanti a lui, prese un appunto. Il furto del Caravaggio, nel tempo, ha assunto un forte sapore romantico, per la città. È uno dei misteri che, in un qual modo, piace poter “possedere” e tutte le versioni che lo vedono distrutto vengono accolte con diniego. Se questo fosse un noir, il racconto del furto potrebbe essere, più o meno, questo:

“Palermo, uno scirocco leggero scalda la città illuminata dalla luna. L’orologio della Cattedrale ha appena suonato le due di notte del nuovo giorno. Due uomini, a bordo di una vecchia Moto Ape percorrono la via Immacolatella illuminati dalla luna. Arrivano davanti all’Oratorio di San Lorenzo, fermano la Moto Ape e si guardano attorno. In giro non c’è nessuno e, dopo aver spento il loro mezzo, regna l’assoluto silenzio. Si avvicinano alla porta e la forzano. In qualche minuto sono all’interno. A colpo sicuro si dirigono verso un quadro. Molto grande. Si tratta di una pala di 3 metri per 2, con un pesantissimo telaio ligneo posta a circa 6 metri di altezza, in mezzo a delicatissimi stucchi del Serpotta, principale oggetto di visita dell’Oratorio. Si tratta della ‘Natività con i santi Lorenzo e Francesco d’Assisi’ del Caravaggio, dipinta nel 1609. È in buono stato di conservazione perché, appena una decina di anni prima, era stata oggetto di un restauro conservativo. I due uomini la rimuovono, asportano la tela dal telaio con una lametta, la arrotolano e la portano via. Il rumore della Moto Ape si perde nelle vie della città come il ‘Caravaggio”.

Da quel momento in poi, più nulla. Le fonti più antiche, come il Baglione nel 1642 e il Bellori nel 1672, avevano formalizzato la notizia che il quadro fosse stato realizzato dal pittore durante la sua permanenza a Palermo, proveniente da Messina e in fuga verso Roma. Ragioni stilistiche, ma anche abbondanti vuoti documentari riguardo alla possibilità che davvero l’artista lombardo avesse toccato nel 1609 questa ipotetica terza tappa al termine del suo tour nell’Isola, hanno, in tempi più recenti, fatto propendere gli studiosi per l’ipotesi che l’opera fosse giunta in città già prima dell’approdo di Caravaggio in Sicilia, forse proprio in corrispondenza del Giubileo del 1603. Quali che siano le circostanze dell’esecuzione del dipinto, è indubbio che si trattasse di una delle maggiori opere d’arte custodite nella regione. Il luogo dove si conservava, l’Oratorio appartenente a una compagnia a quel tempo estinta da più di un secolo, era quanto di più semplice si potesse progettare di violare senza troppa fatica, né eccessivo strepito. Era “sorvegliato” da due donne, le sorelle Gelfo, in età avanzata e ospitate nella canonica dell’edificio forse più per pietà che per necessità ed era chiuso al pubblico per la maggior parte dell’anno. Ogni tanto, il parroco vi celebrava messa. Ma era anche, in verità, in uno stato di quasi completo abbandono, oggetto d’ininterrotte spoliazioni che, a imperitura vergogna delle autorità religiose che avrebbero dovuto provvederne alla tutela, sarebbero continuate ancora nei decenni successivi. Arduo credere che i ladruncoli abbiano potuto portare a termine quel delitto nell’assoluto silenzio e senza un supporto che, di necessità, avrebbe dovuto prevedere una preparazione accurata nei giorni e, forse, nelle settimane precedenti. La tela fu staccata dal suo supporto tagliandone i margini con un rasoio, un’operazione molto complessa, che pure a una mano particolarmente abile avrebbe comunque richiesto lunghe ore di lavoro e una buona illuminazione. Il vertice superiore del quadro stava poi a una quota non inferiore ai 6 metri, per giungere alla quale sarebbe occorsa una scala alta almeno la metà, onde evitare d’appoggiarla direttamente sulla superficie dipinta, o comunque di renderla instabile: chi gliela fornì? Il buon senso induce a credere che quella sottrazione fosse piuttosto avvenuta all’interno di un sistema di complicità, più o meno spontanee, che doveva garantire un esito felice a tutta l’operazione. Per quanto le sorelle custodi dell’oratorio dormissero ogni notte d’un sonno sepolcrale, chi avrebbe garantito che giusto in quell’occasione non si svegliassero, magari per una necessità corporale? Ritrovarsele sveglie nell’Oratorio avrebbe comportato per i ladri, probabilmente, l’obbligo di lasciare qualche morto sulla loro scia. Qualcuno, piuttosto, dovette pagarne il silenzio o minacciare, o forse tutt’e due le cose. È stata sporta denuncia? Certamente. Sono state fatte le indagini? Certamente, ma del “Caravaggio” rubato non si è più saputo nulla e nessuna delle tracce allora seguite dagli investigatori sortì alcun risultato. Sul ‘Giornale di Sicilia’, che si occupò del furto, apparve la dichiarazione del Maresciallo Andrei, del neonato Nucleo Tutela Patrimonio, mandato a Palermo per coordinare le indagini che disse “il furto non è casuale, forse commissionato da grandi organizzazioni internazionali con manodopera palermitana”.

Bisognerà aspettare vent’anni per sentir di nuovo parlare della “Natività”. Sarà proprio in quel novembre del 1989, che Mannoia racconta che furono lui, assieme ad un’altra persona, a rubare il quadro. Non solo, ma che il “Caravaggio” era destinato a un acquirente, probabilmente, svizzero. Il racconto di Mannoia, però, continua. Nel momento in cui l’acquirente vide il quadro per acquistarlo, srotolò la tela e si accorse che l’errato verso di arrotolatura aveva fatto staccare vistose parti di pittura dal quadro rovinandolo per sempre. L’acquirente tornò ai suoi affari e, racconta sempre Mannoia, la tela fu bruciata e buttata nell’Oreto, uno dei fiumi che attraversa Palermo. Perché Mannoia decide, all’improvviso di parlare, auto accusandosene, di un fatto sicuramente non rilevante per le indagini che stava svolgendo Falcone e che erano il fulcro delle dichiarazioni di Mannoia? Questa stessa domanda è forse il motivo che spinse lo stesso Falcone a non verbalizzare ma, come era abituato fare, prenderne nota nel suo block-notes. Di fatto, dopo le informazioni di Mannoia, si sarebbero potute riaprire le indagini, ispirate da una nuova pista che avrebbe permesso, ad esempio di interrogare, cosa non fatta al tempo del furto, l’allora parroco dell’Oratorio o il funzionario della Sovraintendenza preposto. Di fatto, Mannoia formalizza che non si trattò di un furto realizzato da due balordi ma dai mafiosi e che il quadro venne distrutto.

Il furto avviene nel 1969, un anno che i ‘corleonesi’ non possono dimenticare. L’11 giugno, a Bari, al processo contro gli imputati dei delitti di Corleone tra il 1958 e il 1963, sono assolti tutti i 64 imputati. Tra questi ci sono Salvatore Riina e Luciano Leggio. Il 16 giugno di quell’anno, a Palermo viene ucciso Peppino Bologna, un costruttore edile. Quattro giorni dopo, il 20 giugno, è arrestato Totò Riina che viene condannato il 7 luglio al soggiorno obbligato a San Giovanni in Persiceto, in provincia di Bologna. In quel periodo, il business principale, oltre alle solite estorsioni e pizzo cui era sottoposto il territorio e ai lucrosi guadagni che derivavano dalla speculazione edilizia che aveva cominciato a devastare Palermo, era quello del traffico dei derivati del tabacco, sigarette e similari. Il traffico percorreva una rotta che si snodava dal Medio Oriente sino a Palermo, attraverso passaggi garantiti e sicuri. Ma, come per tutti i business di portata internazionale, al fine di garantirsi un buon prezzo d’acquisto la disponibilità di contanti era fondamentale. Inoltre, con questa storia romantica che si le ‘famiglie’ devono occuparsi delle famiglie dei carcerati, il loro portafoglio spesso rimaneva vuoto. Iniziarono ingaggiando i più bravi rapinatori di Palermo, anche non vicini a loro, per realizzare rapine in grosse banche. La vendita di un quadro di altissimo valore con un pagamento in una valuta estera pregiata, ad esempio franchi svizzeri, poteva essere un affare interessante. Ma i boss chi? Chi controllava Palermo in quel 1969? Dopo la strage di Ciaculli, avvenuta il 30 giugno 1963, a seguito dei quasi duemila arresti, la “Commissione” di ‘Cosa Nostra’ fu, temporaneamente, sciolta. Nel 1968, a Catanzaro, c’erano alla sbarra 117 mafiosi. La sentenza condannò pochissimi degli imputati e rilasciò immediatamente gli altri. I capi famiglia riconosciuti di quel 1969 si chiamavano Salvatore Greco, Gaetano Badalamenti, Stefano Bontade, Tommaso Buscetta e Luciano Leggio. È possibile stimare che, dopo il furto, questi cinque ‘galantuomini’ si siano riuniti. Argomento della riunione il furto del Caravaggio e il gestore dell’affare è credibile pensare sia stato Gaetano Badalamenti, mafioso di levatura internazionale che frequentava la Svizzera e con la quale aveva rapporti. Ma il ‘Caravaggio’ fu danneggiato e distrutto, ci dice Marino Mannoia.

Negli anni diversi collaboratori hanno parlato della ‘Natività’, ma mai con i dettagli forniti da Mannoia. Il 4 e il 5 novembre 1996, Marino Mannoia, nel corso di un interrogatorio negli Stati Uniti, conferma la sua versione dichiarando: “Io stesso, insieme a altri, abbiamo rubato il quadro il Caravaggio, e io informai nelle mie prime dichiarazioni il dottor Falcone, il quale aveva sentito alla radio che c’erano un gruppo di questi amanti del, diciamo, di quadri della natura, di queste cose del Caravaggio, interessate, eventualmente a fare qualche, qualche ricompensa a chi avrebbe dato notizie utili sul Caravaggio, e io dissi al Dottore Falcone di far sapere a queste persone che il Caravaggio era andato distrutto perché nel modo in cui era stato arrotolato, quando poi l’acquirente l’ha visto, si è messo a piangere e non era più in condizioni di essere utilizzato”. Scatta immediatamente il campanello d’allarme anche perché, la pala ‘Natività con i santi Lorenzo e Francesco d’Assisi’ era nell’elenco dei primi dieci crimini d’arte redatto dall’F.B.I., allora come oggi. Fu chiesto conto a Mannoia di quanto avesse detto, perché nessuna di queste dichiarazioni fu mai messa a verbale dal dottor Falcone e quindi non potevano essere note a chi stava interrogando Mannoia. Fu chiamato in causa, dallo stesso Mannoia, chi redigeva i verbali e che, al tempo stesso, era il capo-scorta del servizio di tutela che lo Stato gli forniva, Maurizio Ortolan. Interrogato dal Comando Carabinieri per Tutela del Patrimonio Culturale, che fu fondato proprio qualche mese prima del furto del ‘Caravaggio’, Ortolan confermò le dichiarazioni di Mannoia relativamente alla veridicità dell’aver informato il dottor Falcone e confermò anche che lo stesso dottor Falcone avesse preso nota nel suo block-notes di quanto detto da Mannoia e che avesse rimandato l’argomento per poterne parlare in presenza di un suo collega magistrato che conoscesse i fatti. Il dottor Falcone usava normalmente il block-notes, anche se le sua pagine sono ancora avvolte nel mistero.

Per sentir parlare nuovamente, e con contezza, della ‘Natività’, bisognerà però aspettare l’11 maggio 2017 quando Tanino Grado, mafioso di rango, davanti alla Commissione Antimafia dichiara: “Ricordo bene i fatti […] Nel ’69, quando è successo che a San Lorenzo hanno rubato questo quadro della Natività di Caravaggio […], io avevo una mansione nel palermitano. Siccome avevamo deciso che nel centro di Palermo non ci dovevano essere più famiglie mafiose, io allora avevo il compito di tenere ordine nella città di Palermo, e da latitante io giravo tranquillamente come tutti i latitanti, non c’era problema. Per avere notizie di sopravvissuti della città, delle famiglie mafiose di Palermo. Tutte le mattine loro avevano il compito di venire da me a rapportarmi tutto quello che succedeva. Una mattina stavo leggendo il giornale […], dopo due giorni che era scomparso il Caravaggio. Passa Gaetano Badalamenti e mi fa: ‘Tanino, tu che scendi a Palermo vedi di interessarti a u Caravaggiu. Dice che hanno rubato ’sto quadro che ho sentito che ha un valore inestimabile’. E io ho detto: ‘Va bene Tanì, ora te lo faccio sapere’”. Grado, nella deposizione alla Commissione Antimafia, spiega di aver parlato della questione con Giuseppe Di Maggio, di Brancaccio che, secondo quanto riportato nella relazione della Commissione Parlamentare Antimafia, iniziò a interessarsi del caso e riuscì a individuare uno dei giovani autori del furto. Ai ladri, secondo quanto riferito da Grado, furono versati 4 o 5 milioni per recuperare il quadro. E alla domanda se il furto fosse stato commissionato da ‘Cosa Nostra’, Grado rispose negativamente, riferendo che si trattò di un’operazione autonoma “della batteria di ladri”. Subito dopo il recupero, da quanto emerge nella ricostruzione della Commissione Antimafia, il quadro fu spostato più volte fino a giungere in una grotta di San Ciro Maredolce (una chiesa sita nella periferia est di Palermo). Secondo gli accordi, successivamente il dipinto venne consegnato a Stefano Bontade il quale, a sua volta, lo mise a disposizione di Gaetano Badalamenti che prese in consegna la ‘Natività’ portandosela nelle sue proprietà di Cinisi. Secondo Grado, Tano Badalamenti, era collegato a un trafficante di opere d’arte di origini svizzere al quale intendeva rivendere la tela. “Questo vecchio di cui non so precisare il nome – spiega Grado alla Commissione – disse a Badalamenti: “Lo compro io, però sappiate che non si può vendere perché è di un valore inestimabile. Va diviso in base al numero degli acquirenti che trovo”.

Sulla base di queste nuove dichiarazioni, la Commissione Antimafia ha deciso quindi di ascoltare di nuovo il collaboratore di giustizia Francesco Marino Mannoia, peraltro tirato in ballo da Grado e da lui considerato ‘figura determinante’. Mannoia, sentito dalla Commissione, ha dichiarato: “Nel ’69, prima di entrare ufficialmente in ‘Cosa Nostra’ facevo le rapine ai rappresentanti di gioielli, ma non partecipai al furto dell’opera perché quella sera ero con una ragazza. Ero presente, invece, il giorno dopo il furto e mi ricordo che questo quadro era arrotolato”. La ‘Natività’ fu quindi consegnata, dopo alcuni rapidi passaggi di mano, prima a Stefano Bontade come capo del mandamento ‘competente’ per il furto e poi a Gaetano Badalamenti, all’epoca a capo dell’intera organizzazione mafiosa. Dopo la rivendicazione dell’opera da parte di Badalamenti, il boss ne curò in tempi rapidi, già nel 1970, il trasferimento all’estero, verosimilmente in Svizzera. L’intermediazione nella vendita dell’opera sarebbe stata curata da un fiduciario venuto dallo stesso Paese elvetico, esperto antiquario, da tempo defunto. Quest’ultimo è stato identificato grazie al riconoscimento fotografico effettuato da parte di uno dei collaboratori di giustizia che lo aveva visto personalmente all’epoca dei fatti. Lo stesso collaboratore ha dichiarato che, in base a quanto appreso da Badalamenti, l’opera era stata trasferita in Svizzera a fronte di una grande somma di denaro, pagata in franchi svizzeri, e lì scomposta in sei o otto parti, per essere venduta sul mercato clandestino internazionale.

Sono quindi convergenti le dichiarazioni rese alla Commissione Antimafia dai collaboratori di giustizia Gaetano Grado e Francesco Marino Mannoia che hanno chiarito che il furto maturò nell’ambiente di piccoli criminali, ma che l’importanza del quadro e il suo enorme valore, indussero i massimi vertici di ‘Cosa Nostra’ a interessarsi immediatamente della vicenda e a provvedere ad acquisire l’opera. Il filmato con l’intervista a monsignor Benedetto Rocco, conferma in parte questa ricostruzione. Non si può escludere che, di fronte alla necessità di tagliare la tela in più parti e a dover allungare i tempi necessari per realizzare il guadagno previsto, Gaetano Badalamenti abbia voluto usare la tecnica del ‘cavallo di ritorno’ ma, a quanto pare, non ci riuscì.

Ma che fine ha fatto l’appunto preso dal dottor Falcone? È stato consegnato a un suo collega che si occupava o che si era occupato del caso? Fu consegnato al TCP dell’Arma dei Carabinieri? Oppure è rimasto all’interno di una delle sue agende per tutti questi anni? Come successe, ad esempio, all’appunto che il dottor Falcone scrisse, su quel block-notes, il 6 novembre 1989 quando, nell’ambito delle dichiarazioni di Mannoia a proposito dell’estorsione alla Lodigiani, il collaboratore fa il nome di Silvio Berlusconi collegandolo a Grado e a Mangano, lo stalliere di Arcore. Anche in quell’occasione, Falcone non verbalizzò, prendendo un appunto sul block-notes quadrettato e rimandando ad altro momento le dichiarazioni di Mannoia su quell’argomento. L’appunto, di cui non si è saputo nulla per anni, è stato ritrovato nel dicembre 2017 nell’ufficio-museo del giudice, il ‘Bunkerino’, dal suo ex collaboratore, Giovanni Paparcuri. Era in mezzo a una delle agende del giudice. Sul foglio, tra altre indicazioni ‘barrate’, si legge “Cinà in ottimi rapporti con Berlusconi” e ancora “Berlusconi da 20 milioni ai Grado e anche a Vittorio Mangano”. Il foglio è numerato e riporta, in alto, il numero 5 cerchiato. Questi nomi non sono mai finiti nei verbali di Mannoia, che si è sempre rifiutato di fare dichiarazioni ufficiali su Silvio Berlusconi. Sono gli appunti che Falcone prendeva durante gli interrogatori e, come ricorda Maurizio Ortolan, quando dettava per verbalizzare cancellava, ‘barrava’, con un tratto di penna gli argomenti affrontati. Alcuni di questi appunti, non venivano verbalizzati, come successe per il rapporto tra Berlusconi, Grado e Mangano o come successe nel caso del “Caravaggio”, il cui appunto potrebbe ancora oggi trovarsi in mezzo ad una delle tante agende del giudice dimenticate dal tempo. Oppure potrebbe essere stato buttato, ma in questo caso il giudice Falcone avrebbe comunicato quanto saputo da Mannoia a un collega che avesse titolo per occuparsene. Collega che ha forse deciso di non approfondire la pista interrogando Marino Mannoia che, da metà del 1990, sarà portato negli Stati Uniti per collaborare con le autorità americane nei processi contro ‘Cosa Nostra’ americana.

L’interrogatorio di Mannoia avviene nel 1989, nella lunga coda di quella che viene ricordata come la “II° guerra di mafia” ma che in realtà fu un enorme e lungo regolamento di conti tra cosche rivali per il raggiungimento dell’egemonia e poter, quindi, accaparrarsi la maggior parte di capitali e risorse economiche disponibili. Non ci sono più Bontade, freddato nel 1981 e nemmeno Gaetano Badalamenti che, il quel 1989, è in stato di arresto negli Stati Uniti. I corleonesi hanno, oramai, il controllo quasi totale del territorio, anche grazie ad alleanze provinciali. I nuovi boss si ‘chiamano’ Salvatore Riina. Zù Totò, uno e trino, gerarca unico del nuovo sistema mafioso siciliano. Bernardo Provenzano, Leoluca Bagarella e altri ancora sono, senza dubbio, ‘mafiosi di rango’ e gestiscono il potere sul territorio ma Zù Totò decide ‘chi vive e chi muore’, o così perlomeno appare ai suoi sodali, e contraddire Zù Totò equivale ad un suicidio. Anche nelle riunioni che, mensilmente, si svolgono a Pietraperzia, località in provincia di Agrigento, Zù Totò “detta la linea”, non si pone mai agli altri boss con l’obiettivo di ottenere una decisione collegiale.

Se questi sono i ‘cattivi’, cerchiamo ora di capire chi fossero, a Palermo in quel 1989, i ‘buoni’. Nel 1986, con il grado di tenente colonnello, dopo due anni di servizio presso lo Stato Maggiore dell’Arma dei carabinieri, Mario Mori aveva assunto il comando del Gruppo carabinieri Palermo 1, incarico che manterrà fino al settembre 1990. Antonio Subranni, dopo essere stato nominato maggiore nel 1978, diviene comandante del Reparto operativo del comando provinciale di Palermo. Poi, con il grado di colonnello, comanda il gruppo provinciale di Palermo. Arnaldo La Barbera, invece, è promosso a capo della Squadra Mobile di Palermo nell’agosto del 1988. Vi rimarrà fino alla fine del 1992, dopo aver eseguito dopo una serie di arresti di latitanti eccellenti e gestito le prime indagini per le stragi di Capaci e via d’Amelio. Nel dicembre 1986, Borsellino viene nominato Procuratore della Repubblica di Marsala e lascia il pool, quindi Palermo. Come ricorderà Caponnetto, a quel punto gli sviluppi dell’istruttoria includono ormai quasi un milione di fogli processuali, rendendo necessaria l’integrazione di nuovi elementi per seguire l’accresciuta mole di lavoro. Entrarono quindi a far parte del pool altri tre giudici istruttori: Ignazio De Francisci, Gioacchino Natoli e Giacomo Conte. Caponnetto si apprestava a lasciare l’incarico per ragioni di salute e raggiunti limiti di età. Alla sua sostituzione vennero candidati Giovanni Falcone e Antonino Meli. Il 19 gennaio 1988, dopo una discussa votazione, il Consiglio Superiore della Magistratura nominò Meli. A favore di Falcone, votò anche il futuro Procuratore della Repubblica di Palermo, Gian Carlo Caselli, in dissenso con la corrente di Magistratura Democratica cui apparteneva. La scelta di Meli, generalmente motivata in base alla mera anzianità di servizio, piuttosto che alla maggiore competenza effettivamente maturata da Falcone, innescò amare polemiche, e venne interpretata come una possibile rottura dell’azione investigativa, inoltre rese Giovanni Falcone un bersaglio molto più facile per la mafia, perché la sua sconfitta aveva dimostrato che effettivamente non era stimato come si credeva. Borsellino stesso aveva lanciato a più riprese l’allarme a mezzo stampa, rischiando conseguenze disciplinari ma si trattò di esternazioni che di fatto non sortirono alcun effetto. Meli si insedia nel gennaio 1988 e finisce con lo smantellare il metodo di lavoro intrapreso, riportandolo indietro di un decennio. Da qui in poi, Falcone e i suoi dovettero fronteggiare un numero sempre crescente di ostacoli alla loro attività. ‘Cosa Nostra’ intanto assassinò l’ex sindaco di Palermo Giuseppe Insalaco, che aveva denunciato le pressioni subite da parte di Vito Ciancimino durante il suo mandato. Tempo dopo, i due membri del pool Di Lello e Conte si dimisero polemicamente. Non ultimo, persino la Cassazione sconfessò l’unitarietà delle indagini in fatto di mafia affermata da Falcone. Il 30 luglio Falcone richiese addirittura di essere destinato a un altro ufficio, e Meli, ormai in aperto contrasto con Falcone, come predetto da Borsellino, sciolse ufficialmente il pool. Un mese dopo, Falcone ebbe l’ulteriore amarezza di vedersi preferito Domenico Sica alla guida dell’Alto Commissariato per la lotta alla Mafia. Nonostante gli avvenimenti, tuttavia, Falcone proseguì ancora una volta il suo straordinario lavoro, realizzando un’importante operazione antidroga in collaborazione con Rudolph Giuliani, allora procuratore distrettuale di New York.

Ma l’anno 1989 è anche quello del fallito attentato a Giovanni Falcone e l’inizio di alcune missive inquietanti sempre ai danni del giudice palermitano. Già da un anno i Ros si stanno interessando di mafia-appalti, in seguito a una “soffiata” ricevuta dai carabinieri che indagavano sull’omicidio di un allevatore in un comune delle Madonie. Le successive indagini svelano che ‘Cosa Nostra’ non ha più un atteggiamento parassitario, come l’imposizione del pizzo, di assunzioni, di forniture di materiali ma, come spiega Giovanni Falcone, durante un convegno organizzato dall’Alto commissario antimafia, nella primavera del 1990, “indagini in corso inducono a ritenere l’esistenza di un’unica centrale mafiosa che condiziona a valle e a monte la gestione degli appalti pubblici”. Ma ritorniamo al 1989. È il 21 giugno quando cinquantotto candelotti di dinamite vengono rinvenuti sulla scogliera ai piedi della villa all’Addaura: assieme a Falcone avrebbero potuto essere uccisi anche Carla Del Ponte, allora procuratrice a Lugano, e il collega giudice istruttore Claudio Lehmann, che indagavano sul sistema di riciclaggio internazionale di ‘Cosa Nostra’. Facciamo un piccolo passo indietro. Verso la fine di maggio del 1989, Salvatore Contorno, collaboratore di giustizia, trasferitosi da tempo negli Usa dopo la celebrazione del primo maxiprocesso, veniva arrestato in Sicilia in una operazione finalizzata alla cattura del latitante Gaetano Grado, in una villetta di S. Nicola l’Arena. Pochi giorni dopo, venivano indirizzate a diverse autorità una serie di missive anonime scritte a macchina, note come le lettere del “Corvo”, che contenevano gravissime accuse nei confronti di vari magistrati e appartenenti alla Polizia, tra cui innanzitutto Falcone e Giovanni De Gennaro, poi diventato vicedirettore della Dia, accusati di avere ordito un diabolico piano per contrastare la fazione corleonese di ‘Cosa Nostra’ attraverso il ritorno in Sicilia di Salvatore Contorno per favorire la cattura o la eliminazione fisica dei capi corleonesi Salvatore Riina e Bernardo Provenzano e per guidare la vendetta delle cosche perdenti con una serie di omicidi. Si mette in diretta correlazione il rientro di Contorno con una serie di omicidi che effettivamente si erano registrati nel territorio di Bagheria, tra il marzo e il maggio del 1989, ai danni di persone legate alle cosche mafiose vincenti dei corleonesi. Mozzarella, il soprannome di Francesco Marino Mannoia, fu arrestato nel 1985, nel bel mezzo della mattanza. Si pentì dopo il 21 aprile 1989, in seguito alla ‘scomparsa’ di suo fratello Agostino e all’uccisione di altri membri dei clan palermitani, quando capì che i Corleonesi avrebbero ucciso pure lui. Il ventenne Agostino Marino Mannoia, sulla base delle dichiarazioni rese dallo stesso fratello Francesco, insieme a Pino Greco ‘Scarpuzzedda’ e Mario Prestifilippo, uccise il commissario Beppe Montana, che dirigeva la sezione Catturandi della Squadra Mobile di Palermo e partecipò anche all’omicidio del vicequestore Ninni Cassarà.

L’ultima settimana del mese di ottobre 1989, il dottor Giovanni Falcone inizia a raccogliere le sue deposizioni e le informazioni derivanti dalla sua collaborazione. Arriva così il racconto di Mannoia relativo al furto della ‘Natività’ e, qualche giorno dopo, arrivano le informazioni relative alle ottime relazioni tra Cinà e Berlusconi. Ed entrambe queste informazioni sono annotate dal dottor Falcone sul suo block-notes, ma la pagine con l’appunto relativo al ‘Caravaggio’ rubato non si è mai trovata. Quale sia stato il destino di questo foglio di carta quadrettata oggi, non lo sappiamo. Sulla base degli appunti trovati nel 2017, possiamo notare che la pagina con l’appunto su Berlusconi porta, cerchiato, il numero cinque. L’altro foglio, che contiene il nome, non ‘barrato’ di Vito Guarrasi, ma anche alcune note riguardanti altri mafiosi, è numerato con il numero due, sempre cerchiato. Mancherebbero, quindi la pagina uno, la tre e la quattro. Vista la progressione temporale degli interrogatori, l’appunto sul ‘Caravaggio’ potrebbe essere nella pagina tre o nella quattro. Ma, oltre alla pagina che, a tutt’oggi, non è stata ritrovata, non è stata ancora ritrovata la ‘Natività’ mito nella città dei miti, mistero nella città dei misteri. E immagino una decina di persone, sparse per il mondo, entrare nel loro caveau personale, accendere la luce, accomodarsi su una grande poltrona e ammirare la porzione che hanno acquistato della ‘Natività con i santi Lorenzo e Francesco d’Assisi’, dopo aver messo sul giradischi un long playing di Miles Davis.

Roberto Greco per referencepost.it

Nota: le immagini degli appunti ritrovati nel 2017 sono disponibili a questo link